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    Imbianchino a chi?

    Tempo fa riflettevo sull’uso dell’espressione “imbianchino”, terminologia che sostituisce tinteggiatore o, al sud, di “pittore” (guai a chiamarli imbianchini!). A pensarci bene i “pittori” hanno ragione: il bianco lo sanno dare tutti, o quasi perché in realtà io, che ci provai, ottenni un risultato spaventoso. Il dipingere invece non è da tutti.

    La riflessione mi ha portato anche a ragionare sul quando si è passato dal dipingere o tuttalpiù dal tinteggiare all’imbiancare. Sicuramente l’architettura moderna del xx secolo ha contribuito in maniera significativa: quasi tutte le pareti interne ed esterne venivano infatti dipinte di bianco. Si pensi alla stranota citazione attribuita a Le Corbusier: L’Architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce. E i volumi sono più rigorosi e netti se dipinti di bianco.

     

    Quando andai in Messico nel 1996, vent’anni fa (oddio!), mi confrontai non solo con il suo architetto per antonomasia, Luis Barragan, ma anche con tutta la tradizione coloristica messicana che io pensavo specifica di Barragan invece mi accorsi che è assolutamente ordinario dipingere una casa di rosa fucsia o verde menta.

    Anche le nostre case, la nostra tradizione romagnola, ad esempio, è piena di stratigrafie di colore che si sono succedute nei secoli, basta asportarne alcuni strati durante i saggi di un qualsiasi restauro e scopriamo che gli strati bianchi non sono che gli ultimi in termini di tempo.

    Prima era il colore.

     

    Negli ultimi anni ci sono architetti che usano spesso e bene il colore per qualificare i loro interventi. Tra questi lo studio tedesco Sauerbruch e Hutton, ad esempio, o quello italo-spagnolo Miralles e Tagliabue.

    Oggi può essere ancora colore: con buona pace degli imbianchini.

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